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The eye of the storm - recensione

31/10/2011 | Recensioni
The eye of the storm - recensione

Un film che colpisce letteralmente come “un uragano” per la potenza della scrittura e per il talento dei suoi interpreti. Presentato in concorso nella Selezione Ufficiale al Festival di Roma, The Eye of the Storm diretto da Fred Schepisi e tratto dall’omonimo romanzo di Patrick White, premio Nobel australiano per la letteratura nel 1973, vanta come biglietto da vista un cast di primo livello che annovera un ‘tris d’assi’ come Charlotte Rampling, Geoffrey Rush e Judy Davis.
Siamo a Sydney nel 1972, in una splendida villa, due infermiere, una governante e un avvocato assistono Elizabeth Hunter (Charlotte Rampling) sul letto di morte. I figli Basil (Geoffrey Rush), un attore che fatica ad affermarsi sui palcoscenici londinesi e Dorothy (Judy Davis), la moglie di un principe francese che le ha garantito un titolo nobiliare ma non il benessere economico, vengono chiamati al suo capezzale. Entrambi i figli, che in passato si erano allontanati da una madre incapace di amarli, tentano di riconciliarsi con lei e ripercorrono con la memoria le difficoltà della vita passata condividendo l’obiettivo di lasciare l’Australia con l’eredità della donna. Usando i servigi riluttanti dell’avvocato di famiglia, Arnold Wyburd, progettano di sistemare la madre in una casa di riposo per accelerarne la morte. Ma si scontrano con il carattere di ferro della donna.
L’amore e la sofferenza, l’amore e la privazione, l’amore e l’assenza. Un amore a lungo negato da una madre che ha “castrato” i suoi figli ora al suo capezzale. La storia è di quelle forti.
Ma è amore anche quello cercato disperatamente (fino a esiti drammatici) dalle persone impegnate ad accudire amorevolmente la protagonista. Non è amore quello che cerca la governante tedesca scampata allo sterminio nazista, una donna che porta su di sé le cicatrici di un dramma collettivo e personale, che ha perso la sua casa e che ne cerca un’altra disposta ad accoglierla? Non è amore (misto a desiderio di ascesa sociale) quello cercato dall’affascinante giovane infermiera che sembra trovare l’affetto della donna che accudisce mentre cerca l’amore (ma non solo) usando la sua avvenenza per sedurne il figlio? Non è forse amore quello che cerca silenziosamente l’infermiera-suora, l’unica a vivere in una dimensione meno avidamente terrena, ma che soffre nel vedersi preferire la collega nelle grazie della matriarca?
La divisione padroni-servitù che riflette quella tra i due piani della casa, la camera da letto e la cucina, può ricordare a grandi linee quella dell’altmaniano Gosford Park. Alto e basso, due piani, due livelli sociali che sono destinati a intrecciarsi, confondendo desideri e aspirazioni, dolori e privazioni. In effetti, ha ammesso il regista, le persone che vivono di sotto, aspirano tutte in un modo o nell’altro ad arrivare al piano di sopra, tranne l’infermiera-suora chiusa in una dimensione più ‘spirituale’. E la scena del dono dei gioielli di Madame alle due badanti sotto gli occhi della suora che, a detta della signora, non ne ha bisogno, è davvero da antologia.
La figura di Elizabeth Hunter è il centro del film, “una specie di ‘Re Lear’ al femminile” come è stata definita dalla stessa Rampling, una madre che ha letteralmente “spezzato” i propri figli.
Gli attori sono in stato di grazia, in primo luogo Charlotte Rampling (che coraggiosamente accetta di invecchiarsi e imbruttirsi) semplicemente “maestosa” nei panni della matriarca, seguita a ruota da un ‘gigioneggiante’ Geoffrey Rush e da una sommessa e convincente Judy Davis.
Elegante e selvaggio allo stesso tempo, il film colpisce per la ricchezza di battute pungenti e piene di humour ma anche per dialoghi potentissimi, capaci di mettere a nudo le ombre lunghe nascoste nei rapporti familiari. Un grande affresco ambientato in un’epoca cruciale e di passaggio (i primi anni Settanta), la storia di un legame irrisolto tra una madre ingombrante e tre figli troppo deboli che non sono in grado di sopravvivere come lei all’uragano del titolo. E proprio la scena-chiave dell’uragano, rivelatrice e potentissima con quella metafora del vestito bianco macchiato di sangue, prepara alla catarsi finale sul palcoscenico di un teatro, come in un grande dramma shakespeariano.

Elena Bartoni

 


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